Il 12° film di Moretti racconta il delicato momento professionale, personale ed emotivo di una regista (Margherita, interpretata dalla Buy) che è poi lo stesso Moretti. Qui in un film personale, più di altri. Ma rigoroso, coerente e compatto, nonostante l'apparente e netta divisione di linee narrative.
Se da un lato abbiamo l'esplorazione del dolore accanto alla madre nei suoi ultimi giorni di vita, dall'altro c'è la preparazione di un film sugli operai di una fabbrica prossimi al licenziamento. Realtà da una parte, finzione dall'altra. Ed è su questa dicotomia che Moretti costruisce il racconto, saltando da un'emozione all'altra con scioltezza e precisione.
Nella realtà, dolorosa ma necessaria, fanno incursione spesso e volentieri i sogni della regista. Che ci dicono chi è e come forse vorrebbe essere. Nella realtà, Moretti si racconta confessando a noi spettatori che lui è sempre stato considerato un grande interprete del tempo in cui viviamo. Interprete e precursore, innegabile, in ogni film. Da Ecce Bombo ad Habemus Papam, ha sempre saputo cogliere quello che succedeva intorno a noi. Non dell'attualità o della cronaca; ma della realtà, che è un'altra cosa.
E qui, appunto, confessa di non capirci più niente. Certo, un regista con camicia e golfini da comunista che ci sta ancora a parlare di operai nelle fabbriche che perdono il lavoro. Ma che palle, è vero Moretti, non sai cogliere più quello che accade intorno a noi. E poi che ne sai te di esodati, cassintegrati, disoccupati e disperati?
È vero, non ci capisci più niente. Tanto che, nel film, quando la regista Margherita dice che le sue comparse, gli operai appunto, non sembrano operai perché ci sono uomini con le sopracciglia rifatte e le donne con i labbroni, le rispondono che questa è la realtà di oggi.
Non sai più cogliere i tempi in cui viviamo, caro Moretti, al punto che la regista si lamenta sempre che le riprese sono finte.
Piano piano, e dopo qualche ora uscito dalla sala, ho capito. Ho capito la straordinaria lettura e metafora, ancora una volta efficace, di quello che ci circonda. Nonostante Moretti dica di non capirci niente, fa centro e assesta un colpo da maestro.
L'imprenditore sul finto set, interpretato da John Turturro, è un attore americano. O comunque, non italiano. Un attore megalomane, viziato ed egocentrico che non si ricorda le battute e soprattutto, che non sa farsi capire. Che pronuncia male la nostra lingua, insomma un cane considerato più del suo reale valore.
Arriva piano, ma quando arriva è potente.
Imprenditore.
Che non sa parlare italiano.
Operai che non sembrano operai.
E soprattutto, la fabbrica, il mondo operaio e la scelta di ambientare il tutto...
...su un set. Un luogo finto. Dove ci sono bottiglie di champagne finte. Un lavoro di merda, con dialoghi di merda, un lavoro che ti fa venire voglia di tornare alla realtà, come dice lo stesso Turturro. Ma non sta parlando del cinema, eh no.
Pensate a quello che sta accadendo.
Forse un'immagine vi può aiutare.
O forse questa:
O una reinterpretazione di questo marchio:
Per dirne alcune.
Eh, ma quanto sei conservatore, il mondo si evolve, e poi mica sei un economista. Mi si potrebbe dire. Sicuro. Dite quello che vi pare ma non mi sembra che queste operazioni, amministrate in questo modo, facciano bene alla ricchezza del paese. E non mi sembra che, economicamente, questa sia la soluzione più giusta. Poi, posso sbagliarmi.
Moretti ha fatto un film intimo, sofferto, personale. Un film che porta in primo piano gli affetti, il rapporto con i famigliari, le persone che amiamo e a cui vogliamo bene. Questa è l'unica realtà a cui dovremmo tornare, in cui dovremmo veramente vivere.
Il resto, è una metafora.
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