16/05/14

Godzilla di Gareth Edwards - recensione


Un po' di storia. Godzilla (Gojira in giapponese) fece la sua prima comparsa cinematografica nel 1954 quando Tomoyuki Tanaka, produttore della Toho, decise di creare un mostro all'altezza del King Kong americano: una specie di "risposta" nipponica, stavolta di celluloide, sulla scia del conflitto mondiale che culminò con il disastro nucleare il 6 agosto 1945 a Hiroshima e poi Nagasaki. Godzilla diventò - per questo - la metafora dell'atomica e delle aberrazioni umane, metafora che contribuì a creare quel mito cinematografico oggi diventato epico e leggendario. Ishiro Honda (il regista dell'originale) diresse il suo capolavoro che a distanza di sessant'anni rimane ineguagliato per forza, potenza, poesia. Da quel momento, visto il successo, si sprecarono i sequel che videro il lucertolone alle prese con svariati mostri fino ad assurgere al ruolo di difensore dell'umanità.
Gareth Edwards, già regista del notevole Monsters, coraggiosamente si inserisce in questo filone: Godzilla non è più lo spietato distruttore ma viene per proteggerci da altre minacce, in questo caso dai M.U.T.O. (Massive Unidentified Terrestrial Organism), preistorici parassiti che si nutrono di radiazioni. Da minaccia a salvatore, l'unico essere in grado di portare equilibrio nella natura. 
Nel Godzilla di Edwards tutto ciò che ha a che fare con questo aspetto, e cioè con la metafora del nucleare, biologica prima che fantascientifica, è rigoroso e compatto. Inoltre le ambientazioni e le atmosfere che fanno da cornice ai mostri, nonché i mostri stessi ovviamente, raggiungono un livello di raffinatezza visiva tale da diventare commoventi: Godzilla non solo sembra vero, ma sullo schermo diventa una specie di dio da temere e venerare. Insomma, gli si vuole bene. Edwards rispetta la tradizione in cui si è inserita questa creatura e pare averne colto ogni profondo aspetto e ogni sfumatura. In questo senso, Godzilla di Edwards è un capolavoro. 
Purtroppo però, ci sono degli aspetti della storia "umana" che non convincono del tutto. Il rapporto genitore/figlio fa da degno subplot e crea quel fil rouge necessario ma non così emozionante come avrebbe dovuto essere. La verità dei personaggi a tratti diventa già vista e ridondante a tal punto da chiedersi se questo tipo di prodotti abbia ancora bisogno di storie universalmente riconoscibili. Non tutti sono Spielberg in questi casi, e non tutti riescono a raccontare l'emotività umana mentre creature gigantesche se le danno di santa ragione. D'altronde, si tratta sempre del Re dei mostri, rubargli la scena sarebbe impossibile.

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