17/02/12

The River e l'ansia da telecomando

Ennesima produzione di Spielberg, ‘The River’ è una serie che nasce da quel furbacchione di Oren ‘Paranormal Activity’ Peli. In onda negli States dal 7 febbraio, verrà trasmessa da Sky Uno il 1° marzo.


Visto che 'Paranormal' ha sbancato ovunque perché non provarci con una serie? Fortunatamente per lo spettatore il tutto non si risolve con immagini sgranate dentro le quattro mura di una casa: un film di 90 minuti regge pure (in questo caso, il primo e il terzo ‘Paranormal’), ma otto puntate no. Così, lasciandosi alle spalle luoghi domestici e riprese amatoriali, con ‘The River’ si va nel Rio delle Amazzoni.


L’idea di serie: Emmet Cole (interpretato da Bruce Greenwood) un famoso esploratore e conduttore televisivo, scompare nel bel mezzo della realizzazione del suo documentario in Amazzonia. Lo credono morto, ma la sua ricetrasmittente mesi dopo dà segnali di vita. Una troupe televisiva coinvolge la madre e il figlio dell’esploratore per andarlo a cercare, documentando il tutto con gli occhi delle cineprese.
Una delle cose più interessanti dei primi tre episodi visti, per quanto mi riguarda, è l’utilizzo del linguaggio del mockumentary all’interno di una serie televisiva. Per capirci: il mockumentary è quel genere filmico dove si fa finta che sia tutto vero. Il già citato ‘Paranormal’ che deve ringraziare ‘Blair Witch Project’ e che ha dato vita ai vari ‘Rec’, ‘Cloverfield’, ‘District 9’, il bellissimo (e poco conosciuto) ‘Troll Hunter’ e via dicendo. Tutti questi film utilizzano il linguaggio della verità pur essendo finzione. Che sia un documentario o un video ritrovato, l’intento di questo genere è quello di far vivere le stesse sensazioni che vivono i personaggi sullo schermo. 
In tutti i mockumentary a volte si traduce questa intenzione con riprese che ballano, interferenze, frasi sconnesse come “oh mio dio... cos... non... arrghhh!”, altre invece con abilità di scrittura. Mi viene in mente, giusto per fare un esempio, quando in ‘Cloverfield’ si racconta la storia d’amore prima dell’avvento del mostro che distrugge Manhattan. Se adesso riprendo il mostrone, e se questo è un video ritrovato, come faccio a far vedere quello che i due protagonisti hanno vissuto prima? Semplice, il nastro su cui registro (e su cui racconto la storia) è lo stesso. Quando l’impacciato operatore di ‘Cloverfield’ commette degli errori e pigia i tasti sbagliati della videocamera, si vede ciò che è stato registrato prima. In questo modo combaciano le esigenze narrative (la backstory tra i due protagonisti) con quelle ‘realistiche’ del finto video ritrovato. 
Escamotage, questi, con cui il mockumentary deve continuamente fare i conti. Nel caso di ‘The River’, lo si fa per la prima volta nel linguaggio seriale. Per questo ci sono delle cose che funzionano, altre meno. Ottima l’idea di andare in un ambiente esotico, le atmosfere sono rese benissimo anche se non mancano situazioni come queste:


Si può storcere il naso, ma è il genere che lo vuole. 
Anche l’anima della storia affascina: il vago sapore salgariano (non a caso uno dei personaggi si chiama Emilio), le tinte fosche alla ‘Cuore di Tenebra’ e gli ingredienti perturbanti dei riti voodoo.
Qualche dubbio invece su come viene trattata la materia narrativa. Non che abbia amato particolarmente i tempi morti di ‘Paranormal’, ma a pensarci bene era proprio quello che funzionava. Certo, se in un film ci sono momenti in cui non succede praticamente nulla ci si annoia. Un certo Hitchcok lo diceva così: “il dramma è la parte NON noiosa della vita”. Se però voglio rappresentare la vita così com’è, nel mockumentary il tempo morto è necessario. Non avrei mai pensato di dirlo, ma lo dico: il problema di ‘The River’ è proprio la totale assenza di tempi morti. Succedono talmente tante cose che si fa fatica a giocare al ‘facciamo finta che sia tutto vero’.
E il motivo è uno solo: i tempi televisivi. Da sempre, se in tv non succede qualcosa ogni due minuti c’è il rischio che lo spettatore cambi canale. È giusto, e lo capisco. Nessuno vuole annoiarsi con una serie televisiva. Tanto meno i produttori. Nel caso di ‘The River’ però l’ansia da telecomando ha giocato a sfavore, ‘rovinando’ un genere che innanzi tutto ha bisogno di suspence, non di fuochi artificiali. Ma tant’è. Qualcuno doveva pure provarci. 

Comunque rimane il fatto che voglio sapere che fine ha fatto Emmet Cole. Poco non è.

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